Dopo il primo incontro
del Laboratorio dei linamenti di Genere, tenutosi dalla professoressa Federica Giardino alla Facoltà di Lettere dell'Università degli Studi di Roma Tre lo scorso venerdì 6 novembre, ho riflettuto molto sui termini
Emancipazione/Liberazione. Ho ripensato un po' alla mia esperienza. E riflettendo, mi sono resa conto che, come me,
moltissime donne sono arrivate a definirsi Femministe per via pratica
più che teorica.
Credo che la prima volta
che mi sia voluta emancipare sia stato quando, da bambina, durante i
cenoni di Natale a casa dei nonni paterni, gli uomini giocavano a carte in
una stanza e le donne in un'altra a tombola.
Credo anche che la prima
avversione nei confronti del mio corpo e del mio essere donna sia
stato quando mi sono sviluppata e la gente si congratulava con me per
qualcosa che era doloroso, fastidioso e aveva fatto cambiare il mio
corpo in così poco tempo. Qualcosa, mi dicevano i grandi, che faceva
di me una donna adesso. Qualcosa che cominciò a farmi accorgere che
i ragazzi erano interessati sessualmente a me.
Credo che il primo
impulso di ribellione mi sia venuto quando, mentre guardavo la tv con
i miei nonni paterni, dopo aver fatto una domanda sulla politica che
non capivo, mio nonno mi rispose: “Sei femmina, queste cose non le
puoi sapere.”
Mi rendo conto, comunque,
che oggigiorno sono ignorante in termini di politica, non perché non
abbia le conoscenze intellettive per comprenderne i significati. Ma
perché sono disinformata e la mia disinformazione è frutto
dell'educazione che mi è stata imposta dai miei genitori.
Ho vissuto, così, per
tanti anni dolorosi, la voglia di soddisfare le aspettative dei miei
genitori (essere una brava ragazza, imparare a cucinare e a fare le
faccende, imparare a truccarmi e a vestirmi secondo un certo gusto) e
la voglia di ribellarmi e staccarmi da quel nucleo familiare che mi
schiacciava e mi faceva sentire diversa e colpevole di non essere
all'altezza delle loro aspettative.
Sono nata e cresciuta in
Toscana, ma l'influenza della mia famiglia, originaria di un piccolo
paese del Sud Italia, ha influenzato la mia vita per molto tempo.
La prima volta che mi
dichiarai “femminista” fu quando, all'età di 16 anni, mio padre
se ne andò di casa. Era stato un padre violento, autoritario e
crudele. Era stato un padre che aveva voluto imporre il suo potere sul mio corpo e sulla mia mente. Era stato un padre che mi aveva
detto che ero grassa, che ero aggressiva con gli uomini e nessuno mi
avrebbe amata, che non sarei stata in grado di studiare in un liceo
classico, che ero una troia perché mi truccavo e avevo amici maschi,
che sarei stata una nullità e non sarei divenuta nessuno. Il tutto
si chiudeva con schiaffi e pugni.
Quando se ne andò, mi
sentii finalmente libera di vivere la mia vita senza condizioni e
senza influenze negative. Sentii che io, mia madre e le mie sorelle
avremmo potuto costruirci un futuro indipendente.
Invece, mia madre cadde
ancora di più in depressione e mi disse che una donna aveva bisogno di protezione e cura
costante. E fu lì, dopo varie discussioni, che pensai: “Io non
ho bisogno di un uomo. Sono femminista.”
Fu un ulteriore gesto di
ribellione a quella mentalità che mi voleva necessariamente docile e
ferma, che mi voleva mansueta. “Prima o poi incontrerai un uomo che
ti calmerà”, mi diceva mia madre.
Col tempo, comunque, credo di averle dimostrato che ero ben capace di badare a me stessa, di amministrarmi, di vivere la mia vita in modo indimendente e autonomo.
Ho cercato, da quando sono diventata consapevole del fatto che avrei dovuto sgomitare un po' di più per prendere un ruolo definito e soddisfacente all'interno della società, di eliminare la mentalità patriarcale che mi aveva cresciuta ed educata.
Ciò non è voluto dire - come la maggioranza crede erroneamente - che da quel momento in poi mi sarei trasformata in una specie di Medea pronta a vendicarmi in modo assurdo con tutti gli uomini. Ma avrei cercato di costruire, partendo nel mio piccolo mondo, un rapporto di fiducia e rispetto reciproco col sesso opposto, non facendolo sentire in nessun modo inferiore.
E' un passaggio molto difficile e doloroso, perché noi donne siamo tutte rappresentanti di una Medea tradita dal sesso opposto. Giasone, infatti, prima le promette amore eterno e poi la tradisce. Così come gli uomini, promettendoci amore e protezione, in realtà ci rinchiudono in una gabbia di cristallo, togliendoci la capacità di prendere decisioni, di scegliere, di agire.
Non voglio vendicarmi del mio passato doloroso e conflittuale con gli uomini. Non voglio in alcun modo credere che gli uomini non siano in grado di comprendere e di amare. Non voglio nemmeno più essere avversa a quelle donne che, credendosi emancipate, in realtà sono soltanto il gioco e lo strumento di certi uomini.
E' per questo che mi devo promettere uno sforzo in più. Perché nonostante io mi ritenga emancipata, non sono ancora del tutto libera: infatti cerco ancora di soddisfare le esigenze di chi mi vorrebbe composta e carina. Sono emancipata, ma non sono libera.
E non lo sono nemmeno quelle donne avverse in modo ossessivo e aggressivo nei confronti degli uomini, perché, cercando di imitarli e di essere come loro, rinnegano loro stesse.
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