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lunedì 21 dicembre 2015

Abitare a Roma

Roma è la città delle contraddittorietà.

Ha radici profonde e antiche, ma non riesci a vederne la punta della chioma.

E' il luogo in cui hai la possibilità di conoscere un maggior numero di persone diverse tra loro. E' anche il luogo in cui hai maggiore difficoltà a raggiungerle.

Ha monumenti antichi e pieni di storia, che stanno là, ancora in piedi. Ha edifici recenti che cadono a pezzi.

Ha un cielo magnifico, ma è impossibile da guardare a causa dei palazzi troppo alti.

E' la città degli incontri internazionali. Incontri, tuttavia, che sono destinati a perdersi e a non scoprirne mai la profondità.

E' la città della tradizione, ma della ricerca di innovazione.

E' la città dell'amore libero, tenuto a freno dal Vaticano.

E' la città senza mare, ma abitata da gabbiani.

E' la città della socialità ma anche della diffidenza.

E' la città del caos in costante ricerca di pace.

E' la città della possibilità, dei sogni.
Ma è anche la città delle domande, dei dubbi.

Qualcuno mi noterà in mezzo a tutta questa gente?

Abitare a Roma, è come andare alla tua prima festa. Ve lo ricordate? Entrare nella stanza e accorgersi di non conoscere nessuno. E allora pensare subito: "Perché sono venuto? Chi me lo ha fatto fare?"
Vi avvicinate al primo guppetto e cercate di fare quattro chiacchere. "Bella festa, eh?" ma loro ti ignorano. Ti avvicini al secondo gruppetto e uno dei membri comincia a scambiare quattro chiacchere con te, fino a quando non si volta dall'altra parte e continua a parlare con i suoi amici.
Allora ci riprovi, una terza volta. Ma va a finire nello stesso modo.
E ora? Cosa fare?
Decidi di aspettare la fine della festa. Alla fine, sei venuto proprio per rimanere. Ti metti in un angolo e guardi i tuoi coetanei che si divertono. Nessuno sembra fare caso a te. Nessuno incontra il tuo sguardo. Nemmeno per un attimo.
Ok, ho capito. Adesso basta.
E quindi, stai per mollare. Stai per andartene. Stai per definire la tua prima esperienza un completo fallimento. E poi, una persona che prima non avevi notato dice: "Che schifo di festa."
"Lo penso anche io" commenti automaticamente, rassegnato.
"Perché sei venuto?" ti chiede quella persona sconosciuta.
"Bé, sai..." e allora non hai nulla da perdere. E parli. Parlate. Avete un sacco di cose in comune.
Vi fate una birra. E finalmente cominci a sentirti meno solo.

sabato 14 novembre 2015

13 novembre 2015, Parigi

Immaginate di aprire il frigo, dopo essere tornati da lavoro. A parte una birra e un pezzo di formaggio che sta andando a male, non c'è granché da mettere sotto i denti. Allora, vi girate verso la vostra compagna e chiedete: "Andiamo a mangiare una cosa fuori?"
Lei, entusiasta, cerca di vestirsi in modo carino nel minor tempo possibile. Sono le 8 passate, lo stomaco brontola e già la sua mente comincia a spaziare su cosa potrà ordinare.
Andate al ristorante, ordinate una bottigia di vino, così tanto per cominciare. Cominciate a chiaccherare del più e del meno. "Sai, oggi a lavoro..."
E poi, magari non appena vi portano il caffé, sentite un tonfo, uno sparo, delle urla. Cadete a terra, in uno stato confusionale e di paura e terrore crescente.

Immaginate di avere una bandiera della Francia in mano. Stasera, ci sarà la partita amichevole tra Francia e Germania. Non vi perdete uno scontro. Il calcio è la vostra passione. Prendete posto e cominciate a intonare cori e canti in nome della vostra squadra, della vostra nazione. In quel momento, si annullano tutte le diversità, e tutti i francesi diventano vostri fratelli. Seguite il match con estrema attenzione.
E poi, tre colpi, tre botti. Rimanete impietriti. Cercate di scappare, perché a poco a poco, state realizzando tra le urla cosa sta accadendo. Ma sbarricano tutte le uscite dello stadio e voi rimanete un'ora là dentro, in attesa.

Immaginate di aprire il portafogli, per controllare se i biglietti sono ancora là e intatti. Li avete prenotati un mese fa e siete felici di poter trascorrere la serata nella Sala Concerto. Incontrate davanti al teatro la coppia di amici con cui vi date appuntamento in questo genere di occasioni. Fate la coda in biglietteria, mostrate i biglietti alla maschera. Prendete il vostro posto. Chiacchere e parole sussurrate prima che le luci si abbassino. Penombra e poi buio.
Comincia lo spettacolo, davanti a voi luci e suoni e persone.
E poi sentite un tonfo, uno sparo, delle urla. Cadete a terra, in uno stato confusionale e di paura e terrore crescente. Cercate di scappare. E durante la fuga, vedete persone per terra, zoppicanti che si trascinano e scappano.

Immaginate di correre all'ospedale perché qualcuno a voi vicino è stato ferito. Immaginate di soccorrere qualcuno che sta perdendo molto sangue. Immaginate di piangere una persona che ha appena perso la vita.
Immaginate di trovarvi una pallottola nello stomaco e di realizzare che, di lì a poco, si realizzarà la fine.

Immaginate di non poter più, da questo giorno in poi, camminare serenamente per le strade della vostra città.

giovedì 12 novembre 2015

Sono emancipata, ma non sono libera

Dopo il primo incontro del Laboratorio dei linamenti di Genere, tenutosi dalla professoressa Federica Giardino alla Facoltà di Lettere dell'Università degli Studi di Roma Tre lo scorso venerdì 6 novembre, ho riflettuto molto sui termini Emancipazione/Liberazione. Ho ripensato un po' alla mia esperienza. E riflettendo, mi sono resa conto che, come me, moltissime donne sono arrivate a definirsi Femministe per via pratica più che teorica.

Credo che la prima volta che mi sia voluta emancipare sia stato quando, da bambina, durante i cenoni di Natale a casa dei nonni paterni, gli uomini giocavano a carte in una stanza e le donne in un'altra a tombola.
Credo anche che la prima avversione nei confronti del mio corpo e del mio essere donna sia stato quando mi sono sviluppata e la gente si congratulava con me per qualcosa che era doloroso, fastidioso e aveva fatto cambiare il mio corpo in così poco tempo. Qualcosa, mi dicevano i grandi, che faceva di me una donna adesso. Qualcosa che cominciò a farmi accorgere che i ragazzi erano interessati sessualmente a me.
Credo che il primo impulso di ribellione mi sia venuto quando, mentre guardavo la tv con i miei nonni paterni, dopo aver fatto una domanda sulla politica che non capivo, mio nonno mi rispose: “Sei femmina, queste cose non le puoi sapere.”
Mi rendo conto, comunque, che oggigiorno sono ignorante in termini di politica, non perché non abbia le conoscenze intellettive per comprenderne i significati. Ma perché sono disinformata e la mia disinformazione è frutto dell'educazione che mi è stata imposta dai miei genitori.

Ho vissuto, così, per tanti anni dolorosi, la voglia di soddisfare le aspettative dei miei genitori (essere una brava ragazza, imparare a cucinare e a fare le faccende, imparare a truccarmi e a vestirmi secondo un certo gusto) e la voglia di ribellarmi e staccarmi da quel nucleo familiare che mi schiacciava e mi faceva sentire diversa e colpevole di non essere all'altezza delle loro aspettative.
Sono nata e cresciuta in Toscana, ma l'influenza della mia famiglia, originaria di un piccolo paese del Sud Italia, ha influenzato la mia vita per molto tempo.

La prima volta che mi dichiarai “femminista” fu quando, all'età di 16 anni, mio padre se ne andò di casa. Era stato un padre violento, autoritario e crudele. Era stato un padre che aveva voluto imporre il suo potere sul mio corpo e sulla mia mente. Era stato un padre che mi aveva detto che ero grassa, che ero aggressiva con gli uomini e nessuno mi avrebbe amata, che non sarei stata in grado di studiare in un liceo classico, che ero una troia perché mi truccavo e avevo amici maschi, che sarei stata una nullità e non sarei divenuta nessuno. Il tutto si chiudeva con schiaffi e pugni.
Quando se ne andò, mi sentii finalmente libera di vivere la mia vita senza condizioni e senza influenze negative. Sentii che io, mia madre e le mie sorelle avremmo potuto costruirci un futuro indipendente.
Invece, mia madre cadde ancora di più in depressione e mi disse che una donna aveva bisogno di protezione e cura costante. E fu lì, dopo varie discussioni, che pensai: “Io non ho bisogno di un uomo. Sono femminista.”
Fu un ulteriore gesto di ribellione a quella mentalità che mi voleva necessariamente docile e ferma, che mi voleva mansueta. “Prima o poi incontrerai un uomo che ti calmerà”, mi diceva mia madre.
 Col tempo, comunque, credo di averle dimostrato che ero ben capace di badare a me stessa, di amministrarmi, di vivere la mia vita in modo indimendente e autonomo.

Ho cercato, da quando sono diventata consapevole del fatto che avrei dovuto sgomitare un po' di più per prendere un ruolo definito e soddisfacente all'interno della società, di eliminare la mentalità patriarcale che mi aveva cresciuta ed educata.
Ciò non è voluto dire - come la maggioranza crede erroneamente - che da quel momento in poi mi sarei trasformata in una specie di Medea pronta a vendicarmi in modo assurdo con tutti gli uomini. Ma avrei cercato di costruire, partendo nel mio piccolo mondo, un rapporto di fiducia e rispetto reciproco col sesso opposto, non facendolo sentire in nessun modo inferiore.
E' un passaggio molto difficile e doloroso, perché noi donne siamo tutte rappresentanti di una Medea tradita dal sesso opposto. Giasone, infatti, prima le promette amore eterno e poi la tradisce. Così come gli uomini, promettendoci amore e protezione, in realtà ci rinchiudono in una gabbia di cristallo, togliendoci la capacità di prendere decisioni, di scegliere, di agire.
Non voglio vendicarmi del mio passato doloroso e conflittuale con gli uomini. Non voglio in alcun modo credere che gli uomini non siano in grado di comprendere e di amare. Non voglio nemmeno più essere avversa a quelle donne che, credendosi emancipate, in realtà sono soltanto il gioco e lo strumento di certi uomini.

E' per questo che mi devo promettere uno sforzo in più. Perché nonostante io mi ritenga emancipata, non sono ancora del tutto libera: infatti cerco ancora di soddisfare le esigenze di chi mi vorrebbe composta e carina. Sono emancipata, ma non sono libera.
E non lo sono nemmeno quelle donne avverse in modo ossessivo e aggressivo nei confronti degli uomini, perché, cercando di imitarli e di essere come loro, rinnegano loro stesse.

lunedì 13 luglio 2015

Ho scelto

Ho scelto.
Ho scelto di seguire il mio cuore e il mio istinto.
Ho scelto di alzare la testa e amare me stessa.
Ho scelto di fasciarmi ogni ferita, così da risultare invisibile agli altri.
Ho scelto di non smettere mai di sorridere.
Ho scelto di guardare avanti a me, verso gli obbiettivi prefissati.
Ho scelto di aprire il mio cassetto dei sogni, perché non potevano stare ancora rinchiusi.
Ho scelto di vederli volare e danzare attorno a me - luccichio dei miei occhi.
Ho scelto di sbagliare.
Ho scelto di provare a inseguire più strade, per capire cosa volessi davvero, anche se questo è potuto sembrare sciocco e contraddittorio.
Ho scelto di aprire il mio cuore e di amare.
Ho scelto di fidarmi.
Ho scelto di essere ferita, perché magari la mia decisione si è rivelata erronea.
Ho scelto di vivere secondo le mie aspettative e i miei progetti.
Ho scelto di camminare e di respirare e di vedere e di toccare e sentire...

Io ho scelto.

E non mi importa di essere stata capita. Ora, finalmente, non mi importa della compressione e compassione degli altri. Non mi importa.
Perché io ho capito. Ho capito chi sono, cosa voglio. Ho capito che la bellezza, la bellezza della vita, del sole, delle stelle, si comprende e si assapora dopo aver sofferto, dopo un lunghissimo e freddissimo inverno, dopo una giornata tempestosa, dopo aver fatto delle scelte.

E io ho scelto.
Ho scelto di vivere.