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sabato 14 novembre 2015

13 novembre 2015, Parigi

Immaginate di aprire il frigo, dopo essere tornati da lavoro. A parte una birra e un pezzo di formaggio che sta andando a male, non c'è granché da mettere sotto i denti. Allora, vi girate verso la vostra compagna e chiedete: "Andiamo a mangiare una cosa fuori?"
Lei, entusiasta, cerca di vestirsi in modo carino nel minor tempo possibile. Sono le 8 passate, lo stomaco brontola e già la sua mente comincia a spaziare su cosa potrà ordinare.
Andate al ristorante, ordinate una bottigia di vino, così tanto per cominciare. Cominciate a chiaccherare del più e del meno. "Sai, oggi a lavoro..."
E poi, magari non appena vi portano il caffé, sentite un tonfo, uno sparo, delle urla. Cadete a terra, in uno stato confusionale e di paura e terrore crescente.

Immaginate di avere una bandiera della Francia in mano. Stasera, ci sarà la partita amichevole tra Francia e Germania. Non vi perdete uno scontro. Il calcio è la vostra passione. Prendete posto e cominciate a intonare cori e canti in nome della vostra squadra, della vostra nazione. In quel momento, si annullano tutte le diversità, e tutti i francesi diventano vostri fratelli. Seguite il match con estrema attenzione.
E poi, tre colpi, tre botti. Rimanete impietriti. Cercate di scappare, perché a poco a poco, state realizzando tra le urla cosa sta accadendo. Ma sbarricano tutte le uscite dello stadio e voi rimanete un'ora là dentro, in attesa.

Immaginate di aprire il portafogli, per controllare se i biglietti sono ancora là e intatti. Li avete prenotati un mese fa e siete felici di poter trascorrere la serata nella Sala Concerto. Incontrate davanti al teatro la coppia di amici con cui vi date appuntamento in questo genere di occasioni. Fate la coda in biglietteria, mostrate i biglietti alla maschera. Prendete il vostro posto. Chiacchere e parole sussurrate prima che le luci si abbassino. Penombra e poi buio.
Comincia lo spettacolo, davanti a voi luci e suoni e persone.
E poi sentite un tonfo, uno sparo, delle urla. Cadete a terra, in uno stato confusionale e di paura e terrore crescente. Cercate di scappare. E durante la fuga, vedete persone per terra, zoppicanti che si trascinano e scappano.

Immaginate di correre all'ospedale perché qualcuno a voi vicino è stato ferito. Immaginate di soccorrere qualcuno che sta perdendo molto sangue. Immaginate di piangere una persona che ha appena perso la vita.
Immaginate di trovarvi una pallottola nello stomaco e di realizzare che, di lì a poco, si realizzarà la fine.

Immaginate di non poter più, da questo giorno in poi, camminare serenamente per le strade della vostra città.

giovedì 12 novembre 2015

Sono emancipata, ma non sono libera

Dopo il primo incontro del Laboratorio dei linamenti di Genere, tenutosi dalla professoressa Federica Giardino alla Facoltà di Lettere dell'Università degli Studi di Roma Tre lo scorso venerdì 6 novembre, ho riflettuto molto sui termini Emancipazione/Liberazione. Ho ripensato un po' alla mia esperienza. E riflettendo, mi sono resa conto che, come me, moltissime donne sono arrivate a definirsi Femministe per via pratica più che teorica.

Credo che la prima volta che mi sia voluta emancipare sia stato quando, da bambina, durante i cenoni di Natale a casa dei nonni paterni, gli uomini giocavano a carte in una stanza e le donne in un'altra a tombola.
Credo anche che la prima avversione nei confronti del mio corpo e del mio essere donna sia stato quando mi sono sviluppata e la gente si congratulava con me per qualcosa che era doloroso, fastidioso e aveva fatto cambiare il mio corpo in così poco tempo. Qualcosa, mi dicevano i grandi, che faceva di me una donna adesso. Qualcosa che cominciò a farmi accorgere che i ragazzi erano interessati sessualmente a me.
Credo che il primo impulso di ribellione mi sia venuto quando, mentre guardavo la tv con i miei nonni paterni, dopo aver fatto una domanda sulla politica che non capivo, mio nonno mi rispose: “Sei femmina, queste cose non le puoi sapere.”
Mi rendo conto, comunque, che oggigiorno sono ignorante in termini di politica, non perché non abbia le conoscenze intellettive per comprenderne i significati. Ma perché sono disinformata e la mia disinformazione è frutto dell'educazione che mi è stata imposta dai miei genitori.

Ho vissuto, così, per tanti anni dolorosi, la voglia di soddisfare le aspettative dei miei genitori (essere una brava ragazza, imparare a cucinare e a fare le faccende, imparare a truccarmi e a vestirmi secondo un certo gusto) e la voglia di ribellarmi e staccarmi da quel nucleo familiare che mi schiacciava e mi faceva sentire diversa e colpevole di non essere all'altezza delle loro aspettative.
Sono nata e cresciuta in Toscana, ma l'influenza della mia famiglia, originaria di un piccolo paese del Sud Italia, ha influenzato la mia vita per molto tempo.

La prima volta che mi dichiarai “femminista” fu quando, all'età di 16 anni, mio padre se ne andò di casa. Era stato un padre violento, autoritario e crudele. Era stato un padre che aveva voluto imporre il suo potere sul mio corpo e sulla mia mente. Era stato un padre che mi aveva detto che ero grassa, che ero aggressiva con gli uomini e nessuno mi avrebbe amata, che non sarei stata in grado di studiare in un liceo classico, che ero una troia perché mi truccavo e avevo amici maschi, che sarei stata una nullità e non sarei divenuta nessuno. Il tutto si chiudeva con schiaffi e pugni.
Quando se ne andò, mi sentii finalmente libera di vivere la mia vita senza condizioni e senza influenze negative. Sentii che io, mia madre e le mie sorelle avremmo potuto costruirci un futuro indipendente.
Invece, mia madre cadde ancora di più in depressione e mi disse che una donna aveva bisogno di protezione e cura costante. E fu lì, dopo varie discussioni, che pensai: “Io non ho bisogno di un uomo. Sono femminista.”
Fu un ulteriore gesto di ribellione a quella mentalità che mi voleva necessariamente docile e ferma, che mi voleva mansueta. “Prima o poi incontrerai un uomo che ti calmerà”, mi diceva mia madre.
 Col tempo, comunque, credo di averle dimostrato che ero ben capace di badare a me stessa, di amministrarmi, di vivere la mia vita in modo indimendente e autonomo.

Ho cercato, da quando sono diventata consapevole del fatto che avrei dovuto sgomitare un po' di più per prendere un ruolo definito e soddisfacente all'interno della società, di eliminare la mentalità patriarcale che mi aveva cresciuta ed educata.
Ciò non è voluto dire - come la maggioranza crede erroneamente - che da quel momento in poi mi sarei trasformata in una specie di Medea pronta a vendicarmi in modo assurdo con tutti gli uomini. Ma avrei cercato di costruire, partendo nel mio piccolo mondo, un rapporto di fiducia e rispetto reciproco col sesso opposto, non facendolo sentire in nessun modo inferiore.
E' un passaggio molto difficile e doloroso, perché noi donne siamo tutte rappresentanti di una Medea tradita dal sesso opposto. Giasone, infatti, prima le promette amore eterno e poi la tradisce. Così come gli uomini, promettendoci amore e protezione, in realtà ci rinchiudono in una gabbia di cristallo, togliendoci la capacità di prendere decisioni, di scegliere, di agire.
Non voglio vendicarmi del mio passato doloroso e conflittuale con gli uomini. Non voglio in alcun modo credere che gli uomini non siano in grado di comprendere e di amare. Non voglio nemmeno più essere avversa a quelle donne che, credendosi emancipate, in realtà sono soltanto il gioco e lo strumento di certi uomini.

E' per questo che mi devo promettere uno sforzo in più. Perché nonostante io mi ritenga emancipata, non sono ancora del tutto libera: infatti cerco ancora di soddisfare le esigenze di chi mi vorrebbe composta e carina. Sono emancipata, ma non sono libera.
E non lo sono nemmeno quelle donne avverse in modo ossessivo e aggressivo nei confronti degli uomini, perché, cercando di imitarli e di essere come loro, rinnegano loro stesse.